Era un eroe della Grande Guerra, dove si era distinto in aviazione assieme al suo compagno di volo, Pierre Michelin. E in Alvernia avevano il loro grande stabilimento di pneumatici i fratelli Michelin, gli stessi che avevano salvato dal fallimento le fabbriche di André Citroën qualche mese prima, quando questi si era esposto eccessivamente con le banche per rinnovare completamente i suoi impianti e lanciare la rivoluzionaria Traction Avant.
Non era, infatti, bastato l’immediato e potente successo della Traction a salvare la situazione, aggravata dal rapido peggioramento delle condizioni di salute di André Citroën. La morte lo coglierà giovanissimo nel luglio del 1935, ma la sua amata industria era salva. Al timone era arrivato Boulanger, plenipotenziario dei nuovi proprietari, i fratelli Michelin.
“Père Boule”, come veniva affettuosamente chiamato Boulanger, era un pragmatico. Aveva lasciato la Francia ancora quattordicenne per cercare fortuna negli Stati Uniti e l’aveva trovata: nel 1914 era proprietario di una grande compagnia di tram. Poi, con lo scoppio della prima guerra mondiale la Francia chiamò e “Père Boule” rispose, mollando letteralmente tutto per tornare in patria col primo piroscafo ed arruolarsi in aeronautica.
Al termine del conflitto, anziché tornare negli Stati Uniti, restò in Francia, con un ruolo dirigenziale alla Michelin dove rimase fino a quando fu incaricato di raddrizzare i bilanci del Double Chevron, portando avanti il lancio della Traction Avant e rivedendo completamente la gestione finanziaria delle fabbriche Citroën.
I fratelli Michelin gli chiesero il massimo rigore, la massima severità. Pochi sogni ad occhi aperti e tanta fermezza, perché una grande azienda non è un giocattolo.
E “Père Boule” in meno di un anno rispose pienamente al mandato, ribaltando l’andamento della linea dei profitti e portando l’azienda in attivo, completando così la sua missione.
Ma Pierre-Jules Boulanger non tornò a Clermont, perché era stato conquistato dall’aria del quai de Javel (sede della Citroën) e dai sogni del suo predecessore, di cui sposò filosofia e aspirazioni, senza però staccare troppo i piedi da terra. Chiese ai fratelli Michelin di poter restare a Javel, con la promessa di non portare mai a casa un bilancio in rosso, a condizione di avere mano libera nella gestione dell’azienda. I Michelin accettarono e “Père Boule” seppe ricompensare questa fiducia.
Un bel giorno dell’anno 1936, sul tavolo che fu di André Citroën fu depositata una corposa cartella arrivata per posta espressa da Clermont-Ferrand. Il faldone indirizzato a Boulanger conteneva i risultati di un’indagine di mercato commissionata dai Michelin e dallo stesso Boulanger: qual era l’auto che il pubblico francese desiderava di più? Quanti cilindri? Quante portiere? Quante ruote?
La prima domanda dell’indagine condotta in tutta la Francia, aree urbane e rurali incluse, era “possiedi già un’automobile?” La maggior parte delle risposte fu, ovviamente, NO, risposte che provenivano prevalentemente dalla Francia contadina. Persone certamente non agiate che avevano necessità di un’auto economica nell’acquisto e nella gestione, che potesse trasportare tutto come il caro vecchio carro trainato da cavalli, che fosse capace di andare dappertutto. Una richiesta tutt’altro che facile da soddisfare!
Boulanger dettò alla sua segretaria una lettera indirizzata al signor Brogly, al tempo a capo del centro studi Citroën: «Fate studiare nel vostro reparto una vettura che possa trasportare due contadini con gli zoccoli, cinquanta chili di patate o un barilotto di vino ad una velocità massima di sessanta chilometri orari con un consumo di tre litri per cento chilometri».
In questa descrizione c’è già tutta la 2CV, ma Boulanger precisò che l’auto doveva essere in grado di percorrere le strade più difficili - anche un campo arato - con un paniere di uova a bordo senza che se ne rompesse uno, che doveva costare al massimo un terzo della Traction 11 (il modello più venduto), che doveva essere guidata in sicurezza anche da una contadina neopatentata. L’estetica? Beh …non aveva alcuna importanza.
Brogly, perplesso, posò il foglio sulla scrivania di André Lefebvre, l’ingegnere “padre” della Traction, dicendo “questi sono pazzi: è un capitolato impossibile”.
Lefebvre, invece, accettò la sfida e scrisse le tre lettere che avrebbero definito il nome della nuova vettura da lì al momento del lancio: T. P. V., ossia Toute Petite Voiture, auto molto piccola.
LA STORIA DI UNA PICCOLA BICILINDRICA
La gestazione della 2CV, complice la seconda guerra mondiale, durò più o meno dodici anni. Nel 1939 erano già pronti circa 250 prototipi che furono passati in rassegna da Boulanger, che si presentò alla pista prove Citroën con una grande busta di carta.
Dalla busta estrasse un cappello in paglia, di quelli usati dai contadini, che calzò prima di provare a salire su ciascuno dei prototipi. L’idea di Boulanger era semplice: il contadino (vero target della T.P.V., all’epoca) non si separa mai dal suo cappello, se non può entrare e scendere dalla vettura col cappello in testa, allora vuol dire che l’auto non va bene.
Fu così che ogni volta che il cappello cadeva (o, peggio, Boulanger batteva la testa) quel prototipo della T.P.V. se ne andava dritto in demolizione. Ne rimasero ufficialmente una quindicina che, però, furono distrutti perché non cadessero nelle mani dei tedeschi che avanzavano verso Parigi. In realtà, almeno tre sfuggirono alla demolizione e furono ritrovati negli anni ‘90 in un sottotetto di un fabbricato all’interno della pista della Ferté Vidame. Oggi si trovano intatti al Conservatoire Citroën.
Finita la guerra, Boulanger comprese che, benché il panorama fosse cambiato, l’esigenza di una vettura economica e pratica fosse più forte che mai. Allora incaricò Flaminio Bertoni di rivedere l’estetica della T.P.V., trasformandola nella 2CV che conosciamo.
Molte delle soluzioni fantasiose escogitate dai progettisti per abbassare il costo della vettura furono ritenute inadatte al pubblico della fine degli anni ’40. Così sparirono: l’avviamento a manovella o quello a corda, come nei piccoli motori fuoribordo; il singolo faro anteriore (il codice non diceva ancora che dovevano essere due…); il cambio a tre marce, ma solo quando con un escamotage i tecnici di quai de Javel persuasero Boulanger che la quarta marcia era una “surmoltiplica” della terza. Secondo “Père Boule”, infatti, l’auto doveva restare semplice e le tre marce del cambio d’anteguerra erano più che sufficienti.
Del prototipo T.P.V., sulla vettura di serie rimase una curiosa caratteristica che accomuna tutte le 2CV costruite dal 1948 al 1990: i curiosi finestrini anteriori, la cui metà inferiore si ribalta verso l’alto. Erano stati pensati così prima della guerra per consentire al conducente di segnalare il cambio di direzione mettendo il braccio fuori dal finestrino.
Il 6 ottobre del 1948, mentre gli “esperti” ridevano della nuova 2CV apparsa a sorpresa sullo stand Citroën al Salone dell’Automobile di Parigi, decine di migliaia di aspiranti automobilisti affollavano i Concessionari del Double Chevron per prenotare una 2CV. Il successo della Lumaca di Latta, come la vettura fu ribattezzata dai francesi, era solo all’inizio e presto fu necessario misurare in anni la lunghezza della lista d’attesa per averne una.
Grigie, con un motore di 375 cc che permetteva di raggiungere i 60 orari consumando quei fatidici tre litri per cento chilometri, le prime 2CV comparvero nel ‘49 lungo le strade di Francia. La priorità fu data a chi non poteva permettersi altra auto: piccoli coltivatori (appunto), curati di campagna, insegnanti, medici condotti, ma anche fornai e piccoli artigiani, per i quali pochi anni dopo arrivò la versione da lavoro: la AU, capace di trasportare due persone e ben 250 chili di merci nella spaziosa parte posteriore furgonata.
Poi, pian piano, le prestazioni della 2CV crebbero grazie all’adozione di nuovi motori più potenti, sempre a due cilindri contrapposti e raffreddati ad aria: prima un 425 cc, poi 602 cc. Da 12 a 35 cavalli, da 60 a quasi 120 orari!
Nel frattempo, la 2CV era diventata la base di un’intera gamma di modelli che ne riprendevano telaio e architettura della meccanica: l’AMI6 nel 1961, poi la Dyane nel 1967, la Méhari l’anno successivo e l’AMI8 nel ‘69.
Nel 1960 Citroën aveva stupito il mondo (una volta in più) presentando una 2CV con… due motori.
Una soluzione geniale quanto semplice per realizzare un fuoristrada con quattro ruote motrici pur avendo a disposizione solo 18 cavalli.
La 2CV 4x4, ufficiosamente battezzata “Sahara”, fu la risposta Citroën alle esigenze della Total che andava ad esplorare i campi petroliferi del Nord Africa, del corpo forestale francese, delle Poste che dovevano consegnare la corrispondenza alle sperdute frazioni di montagna e perfino dei reali del Belgio, che ne commissionarono una nel 1971, a produzione finita, che fu costruita in Olanda. Era la 695esima Sahara.
Con gli anni, le vendite iniziarono a diminuire: Citroën pensava di rimpiazzarla con la Dyane, ma la simpatia e la personalità della Deuche (altro soprannome della 2CV) erano così forti che la piccola restò in produzione anche quando finì quella della Dyane.
LE SERIE SPECIALI
Due furono i fattori che riportarono in alto le vendite della Lumaca di Latta: la crisi petrolifera ed economica del 1974 (la stessa che determinò la fine della produzione delle “grosse” DS e SM) che portò moltissimi cittadini europei a cercare auto dai consumi irrisori (e la 2CV restava imbattibile) e l’introduzione, a partire dal 1976, delle serie speciali.
Serge Gevin era un decoratore, arredatore e pittore che lavorava con Bob Delpire, il geniale pubblicitario che rivoluzionò l’immagine di Citroën dalla seconda metà degli anni ‘50. Un giorno presentò un’idea per una livrea speciale per la 2CV, bianca e arancio, a strisce come una sedia a sdraio. Propose di chiamarla “Transat”, sedia a sdraio, appunto. Il nome fu rifiutato ma il progetto accettato e la prima serie speciale prodotta da Citroën, lanciata nel 1976, si chiamò SPOT, che stava per SPécial Orange Teneré: Spécial era l’allestimento di partenza previsto dal progetto, Orange Teneré il nome della tinta utilizzata.
La SPOT era sviluppata con motore da 435 cc e, solo per la Svizzera da 602 cc. Furono vendute tutte così rapidamente che pochi anni dopo si pensò a nuove serie speciali, quasi sempre opera della fantasia di Serge Gevin.
Nel 1981 arrivò la Charleston (che doveva chiamarsi Tréfle, come la piccola 5HP Citroën degli anni ‘20) e che era un omaggio agli “anni folli”, in stile retrò, gialla e nera o bordeaux e nera (poi arrivò anche una sofisticata versione in due toni di grigio), nel 1983 le France3 (che in Italia si chiamarono Transat, poi nel 1985 le Dolly, nel 1986 le Cocoricò tricolori e persino una versione dotata di frigobar allestita in collaborazione con una nota ditta di acque minerali: la 2CV Spécial Perrier (1988).
Ma tra tutte, quella che ebbe maggior successo, fu certamente la Charleston che sostenne a tal punto le vendite della 2CV da prolungarne la vita fino al 1990, quando le nuove normative europee la misero definitivamente fuori gioco.
UNA STORIA CHE CONTINUA
L’ultima 2CV uscì dalle catene di montaggio della fabbrica portoghese Citroën di Mangualde il 27 luglio 1990. Le cifre ufficiali parlano di 3.868.634 esemplari prodotti, ma se si considerano anche le derivate, il totale supera agevolmente i cinque milioni di pezzi.
La 2CV usciva dalla linea di montaggio per entrare dritta dritta nella leggenda, con gli ultimi esemplari nuovi conservati intonsi in centinaia di garage in giro per il mondo, mai immatricolati, con raduni oceanici (oltre 11.000 2CV e derivate a Salbris, in Francia, al “mondiale” del 2011), con appassionati che in tutto il mondo la amano al punto di considerarla un membro della famiglia, personalizzandola (e questo è sempre accaduto, fin dai primi esemplari venduti), modificandola con portabagagli, fioriere o poltrone da salotto al posto dei (comodissimi) sedili di serie.
La fine della storia della 2CV è ancora lontana. Non arriverà con la paventata scomparsa dei motori a combustione interna: a Parigi già circola una flotta di 2CV totalmente elettriche; non arriverà per noia: la 2CV è un’esperienza nuova ad ogni viaggio; non arriverà per invecchiamento dei proprietari, perché gli esemplari circolanti passano da una generazione all’altra come un bene di famiglia da cui è impossibile separarsi.
Nata per trasportare due contadini, cinquanta chili di patate o un barilotto di vino (e questo spiega la forma del bagagliaio), la piccola, grandissima Citroën 2CV ha fatto tutto ciò che doveva e molto di più: ha girato il mondo innumerevoli volte, ha popolato e colorato i sogni di generazioni di proprietari, è stata un nido d’amore, un veicolo da lavoro, ha attraversato deserti e mille altre cose ancora.
Aveva ragione Wolgensinger: la 2CV è durata settant’anni e ne durerà altri trecento. È qualcosa di mitico ed inarrivabile, pur rimanendo un attrezzo domestico semplice ed efficace. Ancora oggi, migliaia di appassionati la collezionano e ne fanno il simbolo del loro stile di vita.
A settant’anni di distanza ritroviamo lo stesso spirito, la stessa gioia di vivere, l’audacia e la creatività della 2CV nei valori che fanno parte del DNA del Marchio.
Il marchio Citroën è da sempre impegnato nella ricerca e nella diffusione su larga scala di soluzioni innovative, per migliorare la vita di tutti in auto. Da quasi 100 anni, Citroën accompagna le evoluzioni della società e si impone come marchio popolare, nel senso più nobile del termine: un marchio che si ispira essenzialmente alle persone e al loro stile di vita.
Un approccio da “people minded brand” che si concretizza con la nuova firma di marca “INSPIRED BY YOU”.